Bellezza e tradizione del nuovo nella pittura italiana contemporanea
A cura di Alberto Agazzani
Group Show
Contemplazioni.
Bellezza e tradizione del nuovo nella pittura italiana contemporanea
A cura di Alberto Agazzani
5 agosto – 6 settembre 2009
Rimini, Castel Sismondo e Palazzo del Podestà
Artisti presenti in mostra
Abate Alberto, Aguzzi Fabio, Alioto Massimiliano, Alvarez Sonia, Ariatti Alessandra, Arrivabene Agostino, Balsamo Francesco, Bartolini Ubaldo, Bazan Alessandro, Beel Paul, Benedicenti Luigi, Bergamasco Matteo, Bertocci Carlo, Bianchi Claudia, Blanco Giovanni, Borghi Caterina, Boschi Dino, Boyer Andrea, Buccella Danilo, Bulla Agata, Bulzatti Aurelio, Busci Alessandro, Buttò Saturno, Cannistrà Alessandro, Coda Zabetta Roberto, Colombotto Rosso Enrico, Coni Roberta, Corona Gianluca, Cremonini Leonardo, Crocicchi Luca, Crocioni Roberta, Dall’Asta Renzo, David De Biasio, De Grandi Francesco, Dell’Aquila Paolo, Di Marco Andrea, Di Piazza Fulvio, Di Stasio Stefano, Durini Giulio, Eron, Fasoli Marica, Ferri Roberto, Forcella Francesca, Frangi Giovanni, Frani Ettore, Frisoni Davide, Frongia Lino, Galliani Omar, Gasparro Giovanni, Giannoni Massimo, Gigli Giuseppe, Giovagnoli Luca, Giurato Alfio, Guarienti Carlo, Guccione Piero, Guida Federico, Guindani Giuseppe, Jori Marcello, Kapor Ana, La Motta Alessandro, Lanfranco, Luzi Marco, Mammoliti Salvatore, Manfredini Giovanni, Mariani Carlo Maria, Marrone Salvatore, Martinelli Andrea, Massagrande Matteo, Maugliani Mauro, Minotto Raffaele, Montanari Daniela, Morelli Luca, Moscatelli Mauro, Negri Riccardo, Notari Romano, Orquin Gonzalo, Pajevic Vladimir, Palazzini Angelo, Paolino Salvatore, Papetti Alessandro, Parisi Francesco, Patacchini Verdiana, Petrus Marco, Pompa Adriano, Puglisi Giuseppe, Pulini Massimo, Rampinelli Roberto, Recalcati Antonio, Rinaldi Fulvio, Ruspaggiari Gianni, Russo Salvo, Samorì Nicola, Sarnari Franco, Scalco Giorgio, Siciliano Bernardo, Sughi Alberto, Tagliaferro Paolo, Tamer Marzio, Tassinari Cristiano, Tongiani Vito, Troilo Paolo, Tulli Francesca, Vaccari Wainer, Vacchi Sergio, Valenti Claudio, Ventrone Luciano, Vernizzi Luca, Verrelli Marco, Virgilio, Vitali Giancarlo, Zaffino Massimiliano, Zigaina Giuseppe, Zoda Giovanni, Zuccaro Piero, Zucchi Andrea.
Testo critico di Alberto Agazzani
Un adolescente, nell’estate del 1957, si trova in un piccolo paese del dipartimento della Loira, in Francia. Lì trascorre le sue vacanze e ogni domenica va a messa, «come facevano tutti da quelle parti, ma anche perché mi piaceva: le vetrate sfavillanti, le rutilanti vesti del parroco, l’odore di cera e incenso, l’armonium, i canti, l’attesa impaziente del gran finale: lo stormo delle campane. Una piccola opera da tre soldi, messa in scena ogni domenica», scriverà mezzo secolo più tardi.
Poi, poco tempo dopo, egli si ritroverà in quella stessa chiesa, «ospite di una ricca parigina infatuata dell’arte astratta» e desiderosa di tornare al paese natale, oltre che di rendere partecipi i contadini locali della bellezza di quel luogo, «col favore del parroco convertito alla modernità». Egli racconta ancora: «Era sera. Non riconobbi nulla. La musica dissonante, il dripping sui muri, gli abiti stravaganti, il gesticolare, le grida. E, più scioccante di tutto, gli applausi alla fine di ogni “performance”, che rompevano l’abituale silenzio del luogo. Rimasi pietrificato, agghiacciato. Il diavolo nel campanile. Non rimisi più piede nella chiesa. Sul mondo era piombato il disincanto. Si era spento il canto. La petite musique era finita. A sedici anni avevo imparato il significato della parola “profanare”»1. Quel giovane uomo si chiamava Gérard Régnier, oggi meglio conosciuto come Jean Clair, uno dei massimi critici d’arte dei nostri giorni. Nella sua più recente pubblicazione, dedicata alla crisi dei musei, e più in generale al ben più pressante problema della globalizzazione della cultura, egli denuncia con forza i mali che hanno portato la nostra società, e l’arte che la rappresenta, al livello di “punto morto” attuale, identificandone il male con l’imperante senso di nichilismo che ammorba anime e annienta valori.
L’episodio narrato da Clair è a mio avviso estremamente significativo per rappresentare quella situazione di nichilismo imperante che rapidamente, in nome di una sedicente modernità bisognosa di negare le proprie origini e la propria storia, ha rapidamente portato la nostra società, al pari dell’arte che essa produce, a negare sostanzialmente se stessa, in una gara al cinismo, prima, ed allo scetticismo, poi, che hanno di fatto annientato e cancellato ogni valore ed ogni “sacralità”.
Fino alla fine del XVIII secolo, infatti, tutta l’arte occidentale si svolgeva e sviluppava all’interno di un solido sistema di valori derivati dalla tradizione secolare che la cultura ufficiale, incarnata dal re, dalla Chiesa o dai nobili mecenati, di volta in volta alimentava. Con l’irruzione della Rivoluzione francese, ed il successivo sovvertimento dell’ordine precostituito, al progetto politico si affiancano vari e inediti stili di vita (società segrete, militarismo, militantismo anche e non solo rivoluzionario, da cui il terrorismo e l’anarchia, ecc), fra i quali la cosiddetta “vita d’artista”. Scrive in merito Michel Foucault in una delle sue ultime lezioni al Collège de France nel 1984: «L’idea che gli artisti dovessero condurre uno stile di vita particolare, che non poteva essere ricondotto alla dimensione e alle norme dei comuni mortali, era in realtà già acquisita da tempo. Basta leggere le Vite dei più eccellenti pittori del Vasari o l’autobiografia di Benvenuto Cellini, per convincersi che l’idea che un artista non può vivere come tutti gli altri era già ampiamente diffusa e accettata. La vita di un artista non può essere commisurata a quella delle persone normali»2. Tuttavia tra l’idea rinascimentale di “vita d’artista” suggerita dal Vasari e quella che si profila fra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX vediamo qui comparire qualcosa di nuovo e di inedito. Innanzi tutto la ferma convinzione che l’artista sia in grado di dare all’esistenza una forma diversa da tutte le altre, quella della “vera vita”; una vita che costituisce a sua volta la garanzia più certa che tutte le opere che essa produce appartengano a pieno titolo alla dinastia e al dominio dell’arte.
«Credo, infatti, che questa idea della vita d’artista come condizione dell’opera d’arte, come sua autenticazione, come opera d’arte in sé, sia un modo di riprendere – naturalmente in un’altra prospettiva e in una forma diversa – il principio cinico della vita come manifestazione scandalosa di rottura, attraverso la quale la verità viene alla luce, si manifesta, prende corpo»3. Ma vi è una terza ragione in virtù della quale l’arte si è trasformata in veicolo del cinismo, ed è l’idea che l’arte stessa debba stabilire con la realtà un rapporto che superi la sua semplice imitazione o la sua rappresentazione ideale, per diventare uno strumento in grado di metterla a nudo, di smascherarla, di raschiarne le incrostazioni, scavarne l’essenza per ridurla violentemente ai suoi elementi primari. Quest’ultimo fenomeno risulta evidente in buona parte della “nuova” arte che dalla metà del XIX secolo va diffondendosi in Europa. Ne sono protagonisti Baudelaire e Flaubert in letteratura e, nel novero delle arti visive, Manet, con una pittura che, per l’appunto, “nasce dal basso”, si genera da elementi che “stanno sotto” a tutto ciò che fino al 1789 non aveva né diritto né possibilità d’espressione. Al platonismo della tradizione precedente si sostituisce il cinismo rivoluzionario: l’arte moderna diventa antiplatonica e antisocratica, lontana da qualunque idealità, da qualunque metafisica prestabilita. Un’arte intesa come luogo primario d’irruzione dell’elementare, come messa a nudo dell’esistenza4. Un’epidemia destinata a diffondersi rapidamente nel corso dell’800 e del secolo successivo, fino a noi, attraverso esempi come quello di Otto Dix, Pablo Picasso, Francis Bacon o, oggi, Damien Hirst. Da ciò ha conseguito un atteggiamento di estrema polemica dell’arte verso la cultura, le norme sociali, i valori e i canoni estetici della società; un atteggiamento di totale rifiuto quando non di aperta ostilità e violenta aggressione. Questo comportamento aggressivo e violento ha fatto sì che a partire dal XIX secolo l’arte si ponesse in una posizione di incessante e costante rifiuto, negazione di ogni regola, sia essa stabilita, dedotta o indotta purché riconducibile ad una tradizione, ad un passato. L’arte moderna si è sviluppata dunque all’ombra di un costante rifiuto di qualunque forma già acquisita, nell’incessante e spasmodica ossessione del passato e di un nuovo da ricercarsi e perseguirsi ad ogni costo, finendo così col rappresentare il cinismo della cultura che si rivolta contro se stessa: priva di qualunque valore e confine, l’arte moderna (e contemporanea) si è presto trasformata in un circo nel quale tutto è possibile, anzi nel quale ogni oscenità, provocazione, dissacrazione e profanazione è dovuta, obbligatoria in nome di una presunta verità trasformatasi in vorace vanità.
Il nichilismo contemporaneo è alla base del collasso della nostra società (finanziario, economico, sociale, culturale, etico e politico) e di conseguenza della nostra arte. Già Nietzsche, prima, e Heidegger, poi, ci avevano messi sull’avviso, ma nessuno poteva immaginare che i loro vaticini si realizzassero con così inesorabile violenza. Complici la Grande Guerra, Auschwitz-Birkenau, Hiroshima e l’11 settembre, fino al recente collasso dell’economia globale, l’ultimo secolo si configura come il più terribile dell’intera storia occidentale. La mancanza di certezze e di punti di riferimento, indotta da una crisi di valori che ha anche investito i millenari bastioni della Fede Cristiana, ha generato solitudine, ansia e depressione, portando la società a rifugiarsi rapidamente in pseudo valori dalla carica virale inaudita: denaro, fama, potere. Si curano i sintomi, ma il male rimane.
E come nella chiesa visitata dal giovane Jean Clair, ogni sacralità è bandita, ogni culto immolato sull’altare del qualunquismo, ogni cultura e identità annientata sull’altare di una contaminazione globalizzatrice senza pace.
Il termine contemplare deriva dal latino templum, che letteralmente significa “spazio divino tagliato nell’aria”. Nella Roma antica, infatti, vi erano vari generi di profeti, alcuni dei quali divinizzavano osservando il volo degli uccelli: standosene seduti per ore guardando al cielo, disegnavano coi loro bastoni dei quadrati immaginari nell’aria (templum), realizzando complicate reti di significati e creando gabbie immaginarie in cielo, nelle quali aspettavano che gli uccelli cadessero per ricavarne il messaggio divino. L’atto del contemplare, dunque, rappresenta la fondazione del tempio nello spazio, il luogo attraverso il quale è possibile entrare in contatto col trascendente. Sempre Jean Clair, scrivendo a proposito dell’opera di Claudio Parmiggiani, si interroga: «E’ possibile elevare un tempio al nulla? E’ possibile contemplare il vuoto? Dal momento che gli dèi sono scomparsi, l’arte è morta e la storia compiuta, è ancora possibile per un’opera, grazie alla sua sola presenza nel mezzo di una sala, instaurare il luogo di una contemplazione? Sul luogo di un antico culto abbandonato è possibile rifondare la presenza? […] Esiste ancora un’opera capace di illuminare per un istante questo vuoto assoluto?»5.
Da questa tesi prende il via un progetto espositivo-ipotesi che, ben lungi dall’avere la certezza della soluzione, intende evidenziare l’esistenza di un’arte italiana scevra da cinismo e nichilismo, strettamente legata ai valori tradizionali incarnati dalla Bellezza ma, contemporaneamente, in grado di rinnovarne la forma e rinvigorire, ravvivandola, la forza espressiva. La modernità, sosteneva Arturo Martini, è un fatto espressivo, non meramente formale.
La pittura qui raccolta non ha intenti meramente provocatori o di denuncia a tutti i costi. E’ il frutto di artisti profondamente legati alla realtà e ai suoi accadimenti quotidiani; uomini e donne, anziani quanto giovanissimi, che contro ogni moda, contro ogni tendenza e costrizione hanno saputo tener fede alla loro espressività, al loro Io, imponendolo stili e modalità espressive quanto mai originali ed autonome.
Urlino pure i guru della contemporaneità alla moda, si agitino pure nell’affermare e tentare di dimostrare col loro alessandrinismo la presunta vecchiezza e anacronisticità delle nostre scelte! Non si rendono conto, i guru dell’arte à-la-page, che l’inesorabile fame di Crono li sta lentamente divorando… Il vero anacronismo è il loro, che disperati su una zattera alla deriva, tra le macerie delle Twin Towers e di Wall Street, non si rendono ancora conto che il tempo dell’inganno è finito, il loro tempo è finito. Crollate anche le ultime certezze, distrutti tutti gli ideali e le ideologie, logorati da quel cinismo che si pensava fosse foriero di verità assolute, non resta all’uomo che la via della Bellezza e della consolazione, della Fede in quei valori imperituri e fondamentali per soddisfare i quali si è sentito il bisogno, all’alba del tempo, di inventare l’arte. Solo in questo modo l’artista potrà tornare ad occupare il ruolo che gli era destinato: quello di favorire un’educazione civile, etica e politica, di produrre una Bellezza in grado di educare i suoi spettatori ai veri e più autentici valori dell’esistenza. Un’arte che induca ad una vera contemplazione, in grado di parlare a tutti e di essere riconosciuta per il suo valore reale e per la sua capacità di dischiudere le porte dell’altrove. E di rispondere a quelle domande alle quali solo la consolazione della fede nella Bellezza può dar risposta definitiva.
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- Questa citazione e le precedenti sono prese da Clair, Jean, La crisi dei musei. La globalizzazione della cultura, Milano 2008, pp. 19-20
- Foucault, Michel, Il coraggio della verità, in “Lettera internazionale”, n. 100, 2° trimestre 2009
- Ibid.
- Ibid.
- Clair, Jean, Apocalypsis cum figuris, Torino 2008, p. 38