“Un secolo e 7” a cura di Alberto Agazzani Sabato 28 gennaio 2012
Tricolore, No Logo, Oil on linen, 120x80cm, 2011
Torna la IV edizione del Premio Fabbri per l’arte. Sono già passati due anni e i riflettori sono pronti a riaccendersi sui talenti di tutti quei giovani artisti che hanno voluto rendere omaggio alla nostra azienda con questa iniziativa a cadenza biennale.
L’esposizione s…i terrà dal 28 gennaio al 28 febbraio 2012 presso l’Accademia delle Belle Arti di Via Belle Arti a Bologna in occasione della mostra “Un secolo e 7” a cura di Alberto Agazzani. Come per le edizioni precedenti, i trenta lavori nati dalla creatività di talenti emergenti e o già affermati, vedono protagonisti le nostre simbologie (in primis l’Amarena e il suo vaso dai celebri decori blu) rivisitate in chiave ‘artistica’ attraverso l’uso di molteplici tecniche che vanno dalla fotografia alla scultura fino alla pittura.
La manifestazione si muove di pari passo con ArteFiera, la fiera internazionale di Arte Contemporanea giunta alla sua 35° edizione. Per l’occasione, sabato 28 gennaio è prevista la “Notte Bianca” di Arte Fiera (Art White Night) che animerà piazze e musei della città fino a mezzanotte e darà a tutti la possibilità di visitare anche la nostra esposizione fino alle ore 24.00.
I tre vincitori del Premio Fabbri per l’arte verranno premiati in occasione della conferenza stampa di ArteFiera, domenica 29 gennaio, presso l’Art Talk dalle ore 16.00.
PITTURA
Chiara Albertoni
Paul Beel
Luigi Benedicenti
Giuseppe Bombaci
Andrea Boyer
Andrés David Carrara
Roberta Coni
David De Biasio
Roberto Ferri
Giovanni Gasparro
Massimo Giannoni
Alfio Giurato
Giuseppe Guindani
Mauro Maugliani
Gonzalo Orquin
Lidia Pugnoli
SCULTURA
Affiliati Pedrucci/Savini
Nicola Bolla
Girolamo Ciulla
Marco Cornini
Crash-Toys (Dario Tironi/Koji Yoshida)
Giorgio Laveri
Peter von Balthazar
FOTOGRAFIA
Giulia Caira
Gianluca Chiodi
Mauro Davoli
Marcello Grassi
Fabrizio Orsi
Daniela Perego
Agostino Rocco
“Potrà apparire come “esotico”, ma, professionalmente parlando, fino a qualche tempo fa anche la sola idea di “curare” un premio (nella fattispecie dedicato alle arti visive) mi sarebbe apparsa come un’insostenibile eresia. Non tanto o solo per caratteriali pigrizia, snobismo o idiosincrasie variamente motivate verso questo genere di manifestazioni, ma piuttosto per un’ideologia ed un conseguente metodo d’approccio all’arte che in poco o nulla si presta all’improvvisazione, alla sorpresa, all’inaspettato, tutti elementi così tipici di questo genere di iniziative.
Non ho mai amato le sorprese. Né farle né, tantomeno, riceverle. Soprattutto in ambito professionale: spazio sacro e sacrale al quale non concedo (e non mi concedo) improvvisazioni o ludicità di sorta. La mia personalissima concezione di curatela poggia principalmente su un metodo ed un approccio sì largamente creativi, ma nei quali, e questa è la prima apparente contraddizione, tutto è rigorosamente calcolato, dove ogni scelta, anche quella superficialmente più ovvia ed istintiva, viene passata al vaglio di una ratio tesa, per l’appunto, alla minimalizzazione delle sorprese e di quella che in teatro, e non solo, si chiama “improvvisazione”. Mi sono decisamente riferito al teatro non casualmente, essendo il metodo del “metteur en scène” quello che meglio descrive il mio approccio di curatore (anche e non solo nell’allestimento, componente a mio avviso fondamentale) e quel rigore che mi consentono di trovare un’altrimenti difficile sintesi fra istinto e razionalità, dando forma e contenuti (mi auguro) originali ad idee solo inizialmente ed apparentemente scontate.
E’ difficile sia da ammettere che da accettare, ma la modernità artistica che ci vede attori, e nella quale la figura del curatore ha assunto una centralità tanto esagerata quanto inedita, ha sempre più relegato a mera “firma” la figura del suo regista, spesso, troppo spesso (e dichiaratamente) all’oscuro financo di ciò che compone la sua “creazione” (o invenzione?) espositiva. L’esempio più paradossale ed eclatante di ciò è rappresentato da quelle mostre che, sia pure intestate ad un ideatore, pretendono di negare la figura del curatore stesso, ammucchiando artisti ed opere non già in base a criteri generati da un metodo e da un gusto inevitabilmente personali (e senza pretesa d’assoluto), ma sulla scorta di un’insana idea di “democrazia dell’arte” per la quale ogni persona è potenziale artista ed ogni manufatto un’opera d’arte meritevoli di pari dignità. Così facendo il “curatore” abdica, in nome di un insopportabile “politically correct” così di moda in un tempo senza stile né coraggio, al diritto/dovere di compiere una selezione, evitando così anche le inevitabili responsabilità che derivano da un carattere, da un gusto e da un’ideologia: in una parola da una personalità. Quest’idea, che in nulla m’appartiene fermo restando un profondo rispetto verso chiunque senta la necessità d’esprimersi attraverso un linguaggio artistico, nasconde in sé la perniciosa rinuncia alla scelta, con le inevitabili conseguenze che questa comporta. Napoleone Bonaparte scrisse nelle sue memorie: “ogni volta che nomino un generale mi creo un’irriconoscente e mille nemici”, sintetizzando così, in maniera se vogliamo pessimistica ma non lontana dalla realtà, le conseguenze di ogni scelta o decisione selettiva.
Comporre una rosa necessariamente ristretta di nomi, come nel caso di una mostra collettiva o di un premio aristocraticamente “chiuso” come quello Fabbri, porta perciò all’assunzione di pochi ad all’apparente esclusione dei più, creando non di rado scontento e delusione, quando non impopolarità e autentici rancori. Ma la libera scelta è, o dovrebbe essere, la base di ogni azione curatoriale ed è proprio da quest’apparente “discriminazione”, e dai confini che essa delinea, che si realizza un’idea, un punto di vista portatore, e non mi stancherò mai di sottolinearlo, di un’ideologia personale e soggettiva. Proprio il fatto che il Premio Fabbri poggiasse sulle premesse di una ristrettissima selezione di protagonisti, e non su una pletora di partecipanti come accade nei cosiddetti premi “aperti”, ha costituito l’elemento di differenziazione che mi ha portato a quest’imprevista assunzione di responsabilità (oltre alla personale stima ed all’amicizia che mi legano alla famiglia Fabbri). Se, infatti, una mostra incentrata su un tema consente la “certezza” di opere preesistenti e, quindi, selezionabili a priori, non altrettanto si può dire di un progetto come quello che oggi presentiamo, dove nessuna opera è presente al momento della sua ideazione e dove il “fattore sorpresa”, rischio o imprevisto che dir si voglia, è portato alla sua potenzialità massima. Cosa succede, infatti, se un’opera esula dalla visione del curatore?
La prima e principale difficoltà, dunque, è stata quella d’immaginare, per quanto possibile, un percorso, una “drammaturgia” visiva che nella doverosa e rispettosa varietà delle espressioni e dei linguaggi, e ferma restando una necessaria affinità con le immagini e la gloriosa storia della Fabbri, rappresentasse, tanto nei limiti quanto nelle potenzialità, il punto di vista non solo dei singoli artisti convenuti, ma anche del proprio curatore, ossia di colui che ne ha tessuto in maniera intima e personale, e quindi passibile d’ogni tipo d’osservazioni e opinioni, il percorso e le emozioni, attraverso scelte ovviamente mai casuali eppure sempre azzardate.
Il Premio Fabbri, nato come celebrazione originale e piena di buon senso (oltre che di gusto) del primo secolo di vita dell’azienda bolognese, vanta, poi, tre strepitose precedenti edizioni, curate dal compianto Maurizio Sciaccaluga e dall’illuminata Marina Mojana, che dal 2005 hanno visto protagonisti i più bei nomi della scena artistica italiana, da consacrati maestri della nostra contemporaneità a giovani emergenti, poi non di rado puntualmente premiati dagli eventi e rapidamente assunti al nuovo ruolo di eccellenze nazionali, assortiti con gusto e carattere da chi mi ha preceduto. Anche questo ha rappresentato un elemento di non poco conto ed un precedente d’importanza primaria.
In perfetta continuità con quanto avvenuto in precedenza, dunque, l’idea è stata quella di raccogliere attorno alla Fabbri un gruppo di 30 artisti (pittori, scultori e fotografi) che comprendesse affermati “moderni maestri”, giovani e meno giovani emergenti, prestando particolare attenzione a questi ultimi e con ciò sottolineando un’altra tipica prerogativa della mia attività di curatore e critico d’arte. Caratteristica, quest’ultima, che acquista un senso ed uno spirito del tutto particolari nel momento in cui il Premio Fabbri ha deciso di svolgersi all’interno della prestigiosa e antica, seppure intrisa di varie e sempre nuove modernità, Accademia di Belle Arti di Bologna, da tre secoli luogo di formazione e crescita di nuove espressioni e nuove espressività, fucina di nuovi talenti e nuovi “emergenti”.
Varietà nella varietà. Tre linguaggi, dunque, e 30 “temperature” espressive da assortire e calibrare con attenzione, rigore, equilibrio, benché senza certezze alcune che non fossero l’assoluta sapienza tecnica, la comprovata originalità e, soprattutto, la totale condivisione di valori etici, e quindi estetici. 30 artisti che, soprattutto nell’anno delle celebrazioni dell’Unità d’Italia, era giusto e doveroso venissero selezionati in ogni parte del Bel Paese e distribuiti, per quanto possibile, fra entrambi i sessi.
E’ trascorso poco più di un anno dalla genesi di questo progetto; un anno di lavoro fra l’ansia della sorpresa e il timore dell’incerto, non di rado condiviso in appassionati confronti e scambi d’opinione fra il “regista” di questa “drammaturgia” visiva e i suoi attori protagonisti. Ognuno portatore di una propria individuale ricchezza, di un proprio libero, forte e personale messaggio, ma tutti chiamati a contribuire coralmente ad un’idea, per l’appunto, più vicina ad una messinscena teatrale a 30 voci protagoniste che non ad un insieme di ancorché blasonate e talentuose voci soliste. Il compito del curatore, qui più che in altre occasioni, non è stato quello di assegnare palme d’eccellenza, arduo compito di una commissione ben più autorevolmente autorizzata (e distaccata) dell’appassionato scrivente, ma di rappresentare un proprio personalissimo spaccato della scena artistica italiana (e non solo), cercando di dimostrare la forza sempiterna e trascendente della Bellezza e il primato nella “tradizione del Nuovo” di un Paese, che non ha rivali per storia, armonia, invenzione e varietà espressiva. E devo riconoscere a me stesso ed ai miei 30 compagni d’avventura, prima ancora che a chiunque altro, che nessuno di loro ha tradito le mie aspettative, ma che anzi, eccezione che conferma la regola, mi sono trovato molto sorpreso e felicemente stupito dal riscontrare un impegno, una passione ed un desiderio di dare il meglio di sé finalmente mai scontati né assumibili precedentemente come certezze.
Si è trattato di un’esperienza insolita, che, come affermavo in apertura, non mi sarei mai immaginato di poter o dover affrontare, ma che, come ogni viaggio verso un’ignoto o una terra mai esplorata in precedenza, mi ha arricchito e donato nuova fede nell’arte ed i coloro che ne detengono il fascinoso segreto.
Ora che il viaggio è giunto al termine tutti potranno condividerne il percorso: il sipario si aprirà su questa quarta edizione del Premio Fabbri e solo allora si potrà veramente capire, al di là dei vincitori, se il mio e nostro lavoro è stato vano. Il sipario si aprirà, dunque, e a quel punto solo il pubblico potrà esprimere il suo insindacabile giudizio. Sulla “scena” ci saranno le “nostre” intenzioni e invenzioni, le “nostre” idee, le “nostre” interpretazioni ed i “nostri” punti di vista sulla storia e sull’anima di un’azienda e di un marchio intrisi di tradizione e di “tradizione del Nuovo”; espressioni variegate, libere, autonome, a volte anche apparentemente o “semplicemente” contraddittorie, come si conviene ad ogni creazione artistica, invenzione sensuale e ad ogni solitaria moltitudine. Una messinscena della Fabbri e del suo mito resa possibile, e m’auguro armonica, dalla sensibilità di una famiglia e di un’azienda intrise di Bellezza e dolcezza, dalle invenzioni metafisiche di 30 straordinari artisti e dallo sforzo visionario di un curatore/metteur en scène alla continua ricerca solo ed esclusivamente di forti emozioni ed effimere certezze.”